My home, in Lybia

di Martina Melilli, Italia 2018, 66 min

Regia: Martina Melilli;
Fotografia: Nicola Pertino;
Montaggio: Enrica Gatto;
Colonna sonora: Nicola Ratti;
Produzione: Stefilm; in collaborazione con: ZDF, Arte, Rai Cinema; con il sostegno di: Mibact, Piemonte Doc Film Fund, Regione Piemonte

IL FILM

Dal 1970 i nonni di Martina vivono in un piccolo paese vicino a Padova. Nati in Libia negli anni ’30 sono stati espulsi da Gheddafi nel 1970 insieme ad altri 20.000 Italiani. Confiscati tutti i beni, da un giorno all’altro si ritrovano su alcune navi che li riportano in Italia, un luogo che è solo più un simbolo e non un’appartenenza. Da allora Antonio e Narcisa vivono isolati in una casetta piena di modesti ma densi richiami: una manciata di sabbia del Sahara, rose del deserto, piante grasse e un pappagallo di nome Marisa. Il tempo si è fermato, ma non per Martina che vuole saperne di più. Così il nonno disegna per lei, sulla base dei ricordi, la mappa della sua Tripoli, distante ormai quasi mezzo secolo: corso Vittorio Emanuele, la cattedrale, il lungo mare, la via dove avevano il loro negozio di materiale elettrico. Intanto la Libia dei giorni nostri è nel caos più totale e Martina non può verificare con i suoi occhi quanto il nonno le rappresenta. La rete le viene in aiuto e riesce a stabilire un contatto con un giovane libico che, sulla base degli schizzi del nonno, inizia ad inviare immagini della Tripoli di oggi: i nomi delle strade sono cambiati, molti quartieri non esistono più, le milizie armate si dividono la città e spadroneggiano. A poco a poco il rapporto tra Martina e Mahmoud cresce in un fitto scambio di messaggi e immagini via internet. Da una parte una giovane che fa del territorio europeo la sua casa, dall’altra un giovane libico che non vede nessun futuro se non immaginandosi fuori dalla Libia. Martina si avvicina al posto più estremo della Sicilia che si affaccia sul Mediterraneo mentre Mahmoud fa lo stesso dal litorale di Tripoli. I due si guardano senza vedersi, ma ormai si conoscono grazie alla rete. Intanto il nonno affida il suo destino e quello della nipote e di Mahmoud ad una scritta scolpita nel legno che pende da una parete: “tutto arriva per chi sa aspettare”.

LA CRITICA

Il 71esimo Festival di Locarno ha accolto nella sezione Fuori Concorso My Home, in Libya, primo lungometraggio di Martina Melilli, giovane artista, anche e non solo filmmaker, che, a partire dagli studi intrapresi allo IUAV di Venezia e proseguiti alla Lucas School of Art di Brussels, ha messo insieme negli anni, coerente a se stessa prima di tutto, alla propria idea di cinema di conseguenza, una base estetica e tematica solida, su cui poggia e a cui naturalmente si lega questo nuovo lavoro, che ne è, per sua stessa natura formale e concettuale, maturazione in divenire, aperto a un futuro “storico” e biografico di (im)possibilità di vita ed espressione. Già premiata nell’ambito di ArteVisione 2017 per il corto documentario “Mum, I’m sorry”, inchiesta sul fenomeno delle migrazioni per scelta parziale, zoomata sulle persone, o sugli oggetti che restano delle persone, così da restituire prospettive che sfuggono a un’ istituzionale visione d’insieme, Melilli porta avanti la propria personalissima poetica del frammento, fa collage di memorie, spazi, individui e linguaggi. Non si dà distinzione tra il documentare e il fare arte se per cinema documentario si intende un percorso per immagini e suoni che non si inventi le storie, piuttosto i modi per raccontarle: è questo lo sguardo autoriale della regista veneta, adottato, dichiarato e riscontrabile nella prassi creativa. My home, in Libya va ad arricchire il progetto più ampio che è Tripolitans, archivio multimediale, e non, di storie, quelle degli italiani nati e vissuti in Libia, poi costretti in seguito al colpo di stato di Gheddafi del 1969 a lasciare la città che chiamavano “casa”, Tripoli dorata ed edulcorata, per far ritorno alla a loro straniera Italia. Un voice over che è marca distintiva della produzione, fin qui, della Melilli, elemento imprescindibile da cui traspare il bisogno di una narrazione urgente, vitale e lenitiva, riproduce un messaggio vocale: Martina, figlia di italo-libici strappati alle proprie radici ed educati a rimuovere un capitolo di storia nazionale vissuto sia come colpa che come onta, annota telegrafica le coordinate temporali e spaziali della propria vita costruita attorno ad un vuoto identitario da colmare attraverso un incessante lavoro di scavo negli archivi così come nelle coscienze, ricerca di documenti così come di parole che possano comporre il Senso. Mentre i nonni riprocessano gradualmente i ricordi portando a galla soprusi indimenticati e una nostalgia via via più sofferta, quasi intollerabile, My home, in Libya riesce ad aprirsi ad una moltitudine di questioni attualissime senza mai slacciarsi dal particolare, anche personale, proposito di partenza. Melilli osserva così le migrazioni di oggi con sguardo partecipe e illuminante, ma indiretto, non invadente né tantomeno retorico. Sono semmai i fatti a testimoniare una storia che si ripete la stessa alternando le variabili, i volti, sono le contingenze a cui la regista non si esime dal dare voce a raccontare quello che è stato e che è: Narcisa, la nonna, che parla degli italiani che la accusavano di rubar loro il lavoro, l’intercettazione di uno speaker radiofonico che ignora, e semplicisticamente giudica. Ignora, per esempio, che a Tripoli c’è Mahmoud, contattato dall’artista tramite i social network, fondamentale anello di giunzione per la realizzazione del film data l’impossibilità di ottenere un visto per la Libia, ma fin da subito molto più di questo, “connesso” sulla stessa linea generazionale di Martina. Il nonno scarabocchia su un pezzo di carta i luoghi dei suoi anni d’oro, il giovane, mettendo anche a rischio la propria incolumità, li rintraccia e riprende per poi inviarli alla Melilli che ne fa un controcanto duro e respingente ai racconti della famiglia: Tripoli è cambiata come cambia una città ammorbata nelle viscere, le strade sono asettiche, l’aria asfittica. I cinema chiusi. Le conversazioni tra Martina e Mahmoud appaiono in sovraimpressione, sostituiscono le voci ma ne veicolano le stesse necessità. Lontani, specchiano l’uno nell’altra le rispettive fami, identiche anche se mosse da istanze differenti, di vivere e conoscere. Lui che vuole partire ma non può, ingabbiato nella trappola di una guerra su cui non si riflettono obiettivi, lei che è sempre in fuga, consapevole di non appartenere a nessun luogo, eppure spinta in avanti dal desiderio di radicarsi da qualche parte, a qualcuno, fosse solo per rinunciarvi. Costante, inguaribile “Martina-gonia”.

Veronica Canalini, in Indie-eye.it, 21 agosto 2018

LA REGIA

Martina Melilli è un’artista, regista, autrice e organizzatrice culturale. La sua opera è ispirata da ricerche di natura antropologica e documentaria, spesso in dialogo con le pratiche d’archivio. È interessata alla memoria, alla storia, agli immaginari individuali e collettivi. Si inoltra nelle fratture delle identità e della cultura indagando come incidono sul corpo delle persone e sui suoi movimenti. Crede nei progetti che si nutrono di dinamiche relazionali. Dalle collaborazioni con le persone e gli esperti che di volta in volta la accompagnano nascono principalmente film, progetti fotografici, installazioni, performance. Laureata in Progettazione e Produzione delle Arti Visive (IUAV), Melilli ha studiato cinema documentario e sperimentale alla LUCA School of Arts di Bruxelles. A Bruxelles dal 2010, ha collaborato con la piattaforma artistica Auguste Orts e nel 2015 prende parte alla piattaforma di studi post-accademici SIC (SoundImageCulture). I suoi cortometraggi vengono selezionati, tra gli altri, all’International Rotterdam Film Festival, Ji.hlava IDFF, CineMigrante, DocuTIFF, Lago Film Festival, Filmmaker Film Festival, Milano Film Festival. È la vincitrice dell’edizione 2017 di Artevisione, progetto a sostegno dei giovani artisti a cura di Sky Academy e Careof, con il film MUM, I’M SORRY, poi parte della collezione del Museo del Novecento di Milano, e in mostra nella Project Room del PAC (Milano) assieme al progetto partecipativo e relazionale Non è quello che credi (Aprile 2018). È parte dell’edizione 2018 di VISIO – European Programme on Artists’ Moving Images, e della correlata mostra European Identities: New Geographies in Artists’ Film and Video a cura di Leonardo Bigazzi per il Festival Lo Schermo dell’arte. Nel 2019 è parte della selezioni di Ekrani i Artit festival, Scutari (AL) e Vista d’Arte, a cura di Da Luz Collectiv, a Lisbona. My home, in Libya, il suo primo documentario di creazione, è prodotto da Stefilm International, ZDF/ARTE, RAI Cinema, con il sostegno del MiBACT che l’ha anche riconosciuto di interesse culturale, e per il quale ha ricevuto una borsa di sviluppo dal Premio Solinas. Il film è stato presentato in prima mondiale al Festival di Locarno 2018, poi al Chicago IFF, DOK Leipzig, e molti altri, vincendo premi e menzioni speciali. Dal 2019 Melilli collabora con la rivista Playboy Italia con la rubrica CORPO A CORPO | Bodily Conversations. Nel 2020 realizza il cortometraggio Assembramento, parte del film collettivo Le storie che saremo, presentato in anteprima all’interno del festival Archivio Aperto, ed è finalista del premio d’arte emergente Fondazione Francesco Fabbri, nel quale ha ricevuto la menzione della giuria per il lavoro Un abbraccio. Conduce laboratori e conferenze in numerose istituzioni italiane e internazionali.